Siamo stati molto lieti di avervi qui con noi! Abbiamo studiato insieme un estratto dal romanzo autobiografico “Cronaca familiare” (1947) di Vasco Pratolini (riportato al termine di questa pagina). I partecipanti hanno parlato del danno come elemento inevitabile della vita, e del bisogno di riconoscere e superare quel danno, se possibile, per affrontare la vita che c’è davanti. Hanno considerato il danno provocato dalla malattia, che entrambi i protagonisti (i due fratelli, Vasco e Ferruccio) hanno vissuto, e il danno della seconda guerra mondiale che li circondava. Sono rimasti colpiti dalla frase “Io pedalavo e tu mi guidavi”, che richiama la reciprocità nella relazione tra i due fratelli, la dipendenza dell’uno dall’altro, la fiducia e l’amore familiare l’uno per l’altro. Qualche partecipante ha commentato come i due fratelli siano diventati un insieme talmente affiatato “da percorrere allo stesso modo, con le stesse forze e con gli stessi obiettivi la stessa strada”. Altri partecipanti hanno fatto notare come la fratellanza rappresentasse in sé una relazione di cura per i protagonisti.
In seguito, abbiamo usato il prompt “Descrivi l’entrare in un nuovo mondo”. I partecipanti hanno sottolineato come i commenti e gli interventi di tutti dessero una “vita vera” al testo e come, attraverso l’ascolto degli scritti e dei commenti degli altri, si acquisti una nuova lettura delle relazioni. Alcuni partecipanti hanno scritto sulla vicinanza che si desidera ritrovare in questa nuova realtà a cui siamo confrontati, la consapevolezza del mondo attorno, la speranza e la presenza dell’io, di un io che si presenta qui, alla soglia di un nuovo mondo.
Invitiamo i partecipanti del laboratorio a condividere i propri scritti nella parte “blog” dedicata alla fine di questa pagina (“Leave a Reply”).
“Cronaca familiare” (1947)
Vasco Pratolini
BUR Biblioteca Univerzale Rizzoli
A Roma, una sera sulla fine del 1944, fui chiamato al telefono. Udii la tua voce nell’orecchio. <<Sono appena arrivato. Mi trovo in piazza Risorgimento.>>
<<Come stai?>>
<<Così e così. Ma sono in grado di camminare; non preoccuparti. Ti aspetto nel bar.>>
Non ci vedevamo dal settembre dell’anno prima; ero stato costretto a partire precipitosamente, senza nemmeno salutarti. Ti avevo lasciato gravemente ammalato, infermo tu ora, e per diversi mesi ero rimasto senza tue notizie. Dopo la liberazione di Firenze, una tua lettera mi diceva che avevi trascorso quell’anno quasi sempre in ospedale.
Inforcai la bicicletta per raggiungerti. Era già sera e le strade erano buie ed affollate, ma l’aria era ancora tiepida e il vento che mi batteva sul volto mi rallegrava. È l’ultima ora di contentezza che ricordo, non troverò mai più la felice disposizione di spirito che allietò quella sera. Ci si può assuefare alle persecuzioni, alle fucilazioni, alle stragi; l’uomo è come un albero e in ogni suo inverno levita la primavera che reca nuove foglie e nuovo vigore. Il cuore dell’uomo è un meccanismo di precisione, completo di poche leve essenziali che resistono al freddo, alla fame, all’ingiustizia, alle sevizie, al tradimento, ma che il destino può vulnerare come il fanciullo l’ala della farfalla. Il cuore ne esce con il battito stanco; da quel momento l’uomo diventerà forse più buono, forse più forte, e forse anche più deciso o cosciente nella sua opera, ma non troverà più nel suo spirito quella pienezza di vita e di umori in cui ogni volta egli sfiora la felicità. Era, quella sera, il 18 dicembre 1944.
Il bar era deserto. Sedevi a un tavolo dietro la vetrata; in un angolo stavano abbracciati un soldato straniero e una ragazza. Ti alzasti quando io entrai. Eri altro, diafano, la barba bionda, lunga di due giorni ti ombrava il volto come una luce appena diffusa. Il tuo sguardo era dolce, incerto, quasi velato. <<Fatti vedere>> ti dissi, e fissai i tuoi occhi ch’erano, come in ogni innocente, il tuo specchio. V’era, in essi, il segno di una dura lotta, e nell’intensità della loro acquamarina, una irreducibilità più forte del male.
Non c’erano tram né auto per cui salisti sulla canna della bicicletta; bilanciavamo la valigia sul manubrio, lentamente entrammo in città. Tutto, adesso, può diventare un simbolo. Alto com’eri, mi proibivi l’orizzonte; io pedalavo e tu mi guidavi. Pedalavo piano, appena da mantenere l’equilibrio, per evitarti le scosse. A ruota libera infilammo via Tomacelli ove il traffico divenne più intenso, ti divertivi a scampanellare, a dare sulla voce ai passanti; mi chiedevi il nome delle strade, le notizie dell’anno trascorso, dicevi: <<Mi sembra di entrare in un nuovo mondo>>. E poi: <<Speriamo che Roma mi porti fortuna>>.
Ci coricammo nello stesso letto, come tanti anni prima. Parlammo fino all’alba. Tu dicesti:
<<Ti ricordi? Dieci anni fa eri tu il malato e io il sano>>.
<<Anche tu guarirai>> ti risposi.
<<Quante cose sono successe in questi dieci anni!>>
Eravamo in letto, la camera dava sul cortile; si udiva scalpicciare dal piano di sopra e ogni tanto, di lontano, proveniva l’eco di uno sparo. Ti voltasti verso di me, sul fianco, dicesti: <<Siamo cambiati molto in questi dieci anni. Io in specie, ma anche tu>>. Ti sporgesti sul mio viso e mi baciasti.
Ricordammo i dieci anni durante i quali avevamo imparato a volerci bene.