Laboratori Di Medicina Narrativa: sabato 4 luglio dalle 16 alle 17.30

Siamo stati molto lieti di avervi qui con noi!

Abbiamo letto insieme il testo “Con gli occhi del nemico” di David Grossman (allegato al termine di questa pagina)  

In seguito, abbiamo usato il prompt “Caro nemico, ti scrivo…”

Condivideremo ulteriori dettagli della sessione nei prossimi giorni; vi invitiamo a rivisitare questa pagina nei prossimi giorni!

Invitiamo i partecipanti del laboratorio a condividere i propri scritti nella parte “blog” dedicata alla fine della presente pagina (“Leave a Reply”). Speriamo di creare, attraverso questo forum di condivisione, uno spazio in cui continuare la nostra conversazione!

Stiamo raccogliendo impressioni e breve feedback sui nostri laboratori di medicina narrativa su Zoom!

Questo breve questionario (anonimo, e aperto a chiunque abbia frequentato almeno un laboratorio) è molto importante per noi, e ci permetterà di elaborare sul valore dei nostri laboratori e sul ruolo dello spazio per riflettere e metabolizzare il momento presente. Vi preghiamo quindi di condividere le nostre riflessioni con noi! 


David Grossman, Con gli occhi del nemico. Raccontare la pace in un paese di guerra. Mondadori, 2007 pagg 40-45, estratti.

“Nel momento in cui uno scrive” dice Natalia Ginzburg  “è miracolosamente spinto a ignorare le circostanze presenti della sua propria vita. Certo è così. Ma l’essere felici o infelici si porta a scrivere in un modo o nell’altro. Quando siamo felici la fantasia ha più forza; quando siamo infelici, agisce allora più vivacemente la nostra memoria”. Si fa fatica a parlare di se stessi. Dirò allora quello che posso in questo momento, nella condizione in cui mi trovo.

Io scrivo. La sciagura che mi è capitata, la morte di mio figlio Uri durante la seconda guerra del Libano, permea ogni momento della mia esistenza. La forza della memoria è in effetti smisurata, enorme. A tratti possiede qualità paralizzanti. Eppure l’atto stesso di scrivere crea per me, ora, una specie di “luogo”. Uno spazio emotivo che non avevo mai conosciuto prima, in cui la morte non è solo la contrapposizione totale, categorica, della vita. (…)

Io scrivo. Il mondo non mi si chiude addosso, non diventa più angusto. Mi si apre davanti, verso un futuro, verso altre possibilità. Io immagino. L’atto stesso di immaginare mi ridà vita. Non sono pietrificato, paralizzato dinanzi alla follia. Creo personaggi. Talora ho l’impressione di estrarli dal ghiaccio in cui li ha imprigionati la realtà. Ma forse, più di tutto, sto estraendo me stesso da quel ghiaccio. (…)

Io scrivo. E mi rendo conto di come un uso appropriato e preciso delle parole sia talora una sorta di medicina che cura una malattia. Uno strumento per purificare l’aria che respiro dalle prevaricazioni e dalle manipolazioni dei malfattori della lingua, dai suoi vari stupratori.  (…)

Io scrivo. Mi libero da una delle vocazioni ambigue e caratteristiche dello stato di guerra in cui vivo, quella di essere un nemico, solo ed esclusivamente un nemico. Io scrivo, e mi sforzo di non proteggere me stesso dalle sofferenze del nemico, dalle sue ragioni, dalla tragicità e dalla complessità della sua vita, dai suoi errori, dai suoi crimini. E nemmeno dalla consapevolezza di quello che io faccio a lui, né dai sorprendenti tratti di somiglianza che scopro tra lui  e me.

Io scrivo. Ad un tratto non sono più condannato a una dicotomia totale, fasulla e soffocante: la scelta brutale tra essere “vittima o aggressore”, senza che mi sia concessa una terza possibilità, più umana. Quando scrivo riesco ad essere un uomo nel senso pieno del termine, un uomo che si sposta con naturalezza tra le varie parti di cui è composto, che ha momenti in cui si sente vicino alla sofferenza e alle ragioni dei suoi nemici senza rinunciare minimamente alla propria identità.(…)

E scrivo anche ciò che non potrà mai più essere, per cui non c’è consolazione. E anche allora, in un modo che ancora non so spiegare, le circostanze della mia vita non mi si chiudono addosso, non mi paralizzano. Più volte al giorno, seduto alla mia scrivania, tocco con mano il dolore, la perdita, come si tocca un filo della corrente a mani nude. E non muoio. Non capisco come questo accada. (…)

E scrivo della vita del mio paese, Israele. Un paese tormentato, intossicato da troppa storia, da sentimenti esasperati che non possono essere umanamente contenuti, da troppi eventi e tragedie, da ansie parossistiche, da una lucidità paralizzante, da un eccesso di memorie, da speranze deluse, dalle circostanze di un destino unico nel suo genere tra tutti i popoli del mondo, da un’esistenza che a volte appare mitica, al punto che sembra che qualcosa sia andato storto nei suoi rapporti con la vita e con la possibilità che noi, Israeliani, potremmo un giorno condurre un’esistenza regolare, normale, come un popolo tra gli altri popoli, uno Stato tra gli altri Stati.

Noi scrittori conosciamo momenti di sconforto  e di scarsa autostima (…). Il nostro lavoro ci porta ripetutamente a essere consapevoli dei nostri limiti, sia come uomini che come artisti. Eppure è questa la cosa meravigliosa, l’alchimia che si crea in ciò che facciamo: in un certo senso, nel momento in cui prendiamo in mano la penna, o la tastiera del computer, non siamo più vittime impotenti di tutto ciò che ci asserviva, o ci sminuiva, prima che cominciassimo a scrivere. Noi scriviamo, siamo molto fortunati. Il mondo non ci si chiude intorno, non diventa più angusto.