Laboratori Di Medicina Narrativa: martedì 9 Giugno dalle 19 alle 20.30

Al workshop del 9 giugno 2020 si è percepito un clima di grande partecipazione e di calore emotivo. Abbiamo lavorato sul alcune pagine tratte dal libro di Lev Tolstoj “La morte di Ivan Il’ic”, un testo del 1886 che ha evocato molte riflessioni sul tema della cura e del prendersi cura. In particolare, le voci di tre lettori ci hanno portano nella scena in cui avviene una conversazione tra Ivan, malato e sofferente e il giovane e forte Gerasim, che mentre accudisce il suo padrone lo conforta con gesti di semplicità, sincerità e leggerezza.  L’invito alla scrittura è stato “Scrivi una lettera al tuo Gerasim”.

La lettura accurata del testo ha portato i partecipanti ad evidenziare alcuni elementi chiave del racconto: l’incontro fra due corpi fra loro molto diversi (salute/malattia, forza/fragilità, baldanza/debolezza) che apre ad una relazione che progredisce da semplici gesti di accudimento ad una condivisione potente sul piano umano fra i due protagonisti. Questo avviene grazie alla straordinaria naturalezza con cui Gerasim si approccia ad Ivan, senza pietismo né commiserazione e anche contenendo la propria gioia di vivere per non mortificarlo. Egli fa tutto “volentieri”, con leggerezza e delicatezza e questo atteggiamento conforta il malato. Una partecipante ha detto che è come se “il tempo si fosse fermato e lo spazio dilatato” in questa scena di cura, dove tutto diventa “relazione”, ma anche incontro fra generazioni, scambio tra chi cura e chi viene curato, riconoscimento reciproco.

Ecco gli ingredienti della cura che i partecipanti hanno scritto nella chat al termine della close reading del testo:

Per passare subito dopo all’attività di scrittura a partire dall’invito dei facilitatori e alla lettura di molti testi, che hanno richiamato e amplificato con parole, emozioni e significati il brano di Tolstoj da cui eravamo partiti. Ascoltare attentamente e rispondere ai testi dei partecipanti ci ha portati a riflettere su come ogni persona abbia aperto un nuovo puto di vista e nuove possibilità di interpretare la cura, che è cura dell’altro ma anche di sé e del contesto. Il tempo della relazione è stato indicato come un tempo donato, di conforto, “oro e balsamo” per chi soffre ma anche per chi sta accanto alla sofferenza dell’altro. La cura richiede preparazione e generosità e genera gratitudine e riconoscimento reciproco. L’insieme delle scritture e delle risposte agli scritti ha costruito una sorta di racconto sulle pratiche di cura. In chiusura abbiamo ascoltato l’audio di una poesia di Mariangela Gualtieri “Sii dolce con me”, il cui testo vogliamo qui riportare, in quanto ricco di parole che hanno rimbalzato e risuonato nei lavori della sessione:

Sii dolce con me. Sii gentile.
È breve il tempo che resta. Poi
saremo scie luminosissime.
E quanta nostalgia avremo
dell’umano. Come ora ne
abbiamo dell’infinità.
Ma non avremo le mani. Non potremo
fare carezze con le mani.
E nemmeno guance da sfiorare
leggere.

Una nostalgia d’imperfetto
ci gonfierà i fotoni lucenti.
Sii dolce con me.
Maneggiami con cura.
Abbi la cautela dei cristalli
con me e anche con te.
Quello che siamo
è prezioso piú dell’opera blindata nei sotterranei
e affettivo e fragile. La vita ha bisogno
di un corpo per essere e tu sii dolce
con ogni corpo. Tocca leggermente
leggermente poggia il tuo piede
e abbi cura
di ogni meccanismo di volo
di ogni guizzo e volteggio
e maturazione e radice
e scorrere d’acqua e scatto
e becchettio e schiudersi o
svanire di foglie
fino al fenomeno
della fioritura,
fino al pezzo di carne sulla tavola
che è corpo mangiabile
per il mio ardore d’essere qui.
Ringraziamo. Ogni tanto.
Sia placido questo nostro esserci –
questo essere corpi scelti
per l’incastro dei compagni
d’amore.

Noi facilitatori ed organizzatori ringraziamo tutti i partecipanti della loro presenza attenta, sensibile, profondamente umana.


Da “La morte di Ivan Il’ič” di Lev Tolstoj,  1886

Gerasim era un giovane contadino, pulito, fresco, bene in polpa dai cibi cittadini. Sempre allegro, sereno. Sulle prime la vista di quell’uomo vestito alla russa, sempre lindo, che faceva una tale ingrata operazione, turbava Ivan Il’ič. Una volta questi, alzatosi dalla seggetta senza la forza di tirarsi su i pantaloni, si lasciò cadere in una poltrona, e si guardava con terrore le cosce nude, fiacche, dai muscoli crudamente rilevati.

Entrò con i suoi grossi stivali – recando un gradevole odore di catrame, da questi stivali e la freschezza dell’aria invernale- a passo leggero e forte Gerasim, col suo lindo grembiule di canapa e una linda camicia d’indiana dalle maniche rimboccate sulle braccia giovani e forti. Senza guardare Ivan Il’ič – evidentemente contenendo, per non mortificare il malato, la gioia di vivere che gli traspariva dal volto, s’avvicinò alla seggetta.

— Gerasim — disse  Ivan Il’ič con voce debole. Gerasim trasalì, temendo d’aver fatto male qualcosa, e con un rapido movimento volse verso il malato il suo giovane viso, fresco, buono, semplice, appena ombreggiato dalla barba che cominciava a crescere.

— Che cosa comandate?

— E’ seccante fare questo, no? Mi devi scusare. Io non posso.

— Macchè— E Gerasim  fece vedere i suoi giovani bianchi denti e gli occhi gli brillarono.

— Perché non dovrei farlo? Voi siete malato.

E con mano accorta e vigorosa fece quello che doveva e uscì a passo leggero. E dopo cinque minuti tornò, con lo stesso passo leggero.

Ivan Il’ič stava ancora lì sulla poltrona.

— Gerasim — disse, quando costui ebbe rimesso a posto il vaso pulito, lavato — ti prego, aiutami, vieni qui —. Gerasim si avvicinò. — Sollevami. Mi è penoso farlo da solo, e Dmitrij l’ho mandato fuori.

Gerasim si avvicinò ancora di più; colle robuste braccia, leggero come camminava, l’abbracciò, lo sollevò delicatamente e lo sostenne, con una mano gli tirò su i pantaloni e voleva metterlo a sedere. Ma Ivan Il’ič lo pregò di accompagnarlo al divano. Gerasim, senza sforzo e come se non lo toccasse neppure, lo menò, quasi portandolo di peso, al divano e lo mise a sedere.

— Grazie. Come sei bravo… come fai bene tutto…

Gerasim sorrise di nuovo e fece per andarsene. Ma Ivan Il’ič si trovava così bene con lui che lo trattenne.

— Ecco, avvicinami, ti prego, quella sedia. No, quella là. Mettimela sotto le gambe. Sto meglio quando ho i piedi in alto.

Gerasim portò la sedia, la posò senza fare rumore, abbassandola a terra e vi stese su le gambe di Ivan Il’ič. A questi pareva di stare meglio, mentre Gerasim gli teneva alti i piedi.

— Sto meglio quando ho i piedi alzati — disse Ivan Il’ič —. Mettimi qui sotto quel cuscino.

Gerasim obbedì. Di nuovo gli sollevò i piedi e li posò sul cuscino. Di nuovo a Ivan Il’ič parve di star meglio mentre Gerasim gli sollevava i piedi. Quando li riabbassò gli parve di star peggio.

— Gerasim, disse, hai da fare, adesso?

— Per nulla — disse Gerasim, che aveva imparato dai domestici cittadini a parlar coi padroni.

— Che cosa ti rimane da fare?

— Che mi rimane? Niente, ho finito tutto: solo spaccar la legna per domani.

— Allora tienimi un poco su le gambe… puoi?

— Ma certo che posso — Gerasim alzò le gambe di Ivan Il’ič al quale parve di non sentir più il dolore in quella posizione.

— E la legna?

— Non abbiate pensiero. Avrò sempre tempo.

Ivan Il’ič disse a Gerasim di mettersi a sedere mentre gli teneva le gambe, e intanto discorreva con lui. E, strana cosa, gli pareva di sentirsi davvero meglio quando Gerasim gli teneva le gambe.

Da quel momento Ivan Il’ič cominciò a chiamare di tanto in tanto Gerasim, e gli appoggiava i piedi sulle spalle, e amava discorrere con lui. Gerasim gli rendeva quel servizio senza difficoltà, volentieri, con una semplicità e una bontà che lo commovevano. La salute, la forza, la baldanza vitale di chiunque altro offendevano Ivan Il’ič; soltanto la forza e la baldanza di Gerasim non gli facevano male, anzi lo calmavano.

Da “La morte di Ivan Il’ič” di Lev Tolstoj,  1886


Laboratori Di Medicina Narrativa: sabato 6 giugno dalle 16 alle 17.30

Siamo stati molto lieti di avervi qui con noi! Abbiamo studiato insieme un estratto dal romanzo autobiografico “Cronaca familiare” (1947) di Vasco Pratolini (riportato al termine di questa pagina). I partecipanti hanno parlato del danno come elemento inevitabile della vita, e del bisogno di riconoscere e superare quel danno, se possibile, per affrontare la vita che c’è davanti. Hanno considerato il danno provocato dalla malattia, che entrambi i protagonisti (i due fratelli, Vasco e Ferruccio) hanno vissuto, e il danno della seconda guerra mondiale che li circondava. Sono rimasti colpiti dalla frase “Io pedalavo e tu mi guidavi”, che richiama la reciprocità nella relazione tra i due fratelli, la dipendenza dell’uno dall’altro, la fiducia e l’amore familiare l’uno per l’altro. Qualche partecipante ha commentato come i due fratelli siano diventati un insieme talmente affiatato “da percorrere allo stesso modo, con le stesse forze e con gli stessi obiettivi la stessa strada”. Altri partecipanti hanno fatto notare come la fratellanza rappresentasse in sé una relazione di cura per i protagonisti. 

In seguito, abbiamo usato il prompt “Descrivi l’entrare in un nuovo mondo”. I partecipanti hanno sottolineato come i commenti e gli interventi di tutti dessero una “vita vera” al testo e come, attraverso l’ascolto degli scritti e dei commenti degli altri, si acquisti una nuova lettura delle relazioni. Alcuni partecipanti hanno scritto sulla vicinanza che si desidera ritrovare in questa nuova realtà a cui siamo confrontati, la consapevolezza del mondo attorno, la speranza e la presenza dell’io, di un io che si presenta qui, alla soglia di un nuovo mondo. 

Invitiamo i partecipanti del laboratorio a condividere i propri scritti nella parte “blog” dedicata alla fine di questa pagina (“Leave a Reply”).


“Cronaca familiare” (1947)

Vasco Pratolini

BUR Biblioteca Univerzale Rizzoli 

A Roma, una sera sulla fine del 1944, fui chiamato al telefono. Udii la tua voce nell’orecchio. <<Sono appena arrivato. Mi trovo in piazza Risorgimento.>>

  <<Come stai?>>

  <<Così e così. Ma sono in grado di camminare; non preoccuparti. Ti aspetto nel bar.>>

  Non ci vedevamo dal settembre dell’anno prima; ero stato costretto a partire precipitosamente, senza nemmeno salutarti. Ti avevo lasciato gravemente ammalato, infermo tu ora, e per diversi mesi ero rimasto senza tue notizie. Dopo la liberazione di Firenze, una tua lettera mi diceva che avevi trascorso quell’anno quasi sempre in ospedale.

  Inforcai la bicicletta per raggiungerti. Era già sera e le strade erano buie ed affollate, ma l’aria era ancora tiepida e il vento che mi batteva sul volto mi rallegrava. È l’ultima ora di contentezza che ricordo, non troverò mai più la felice disposizione di spirito che allietò quella sera. Ci si può assuefare alle persecuzioni, alle fucilazioni, alle stragi; l’uomo è come un albero e in ogni suo inverno levita la primavera che reca nuove foglie e nuovo vigore. Il cuore dell’uomo è un meccanismo di precisione, completo di poche leve essenziali che resistono al freddo, alla fame, all’ingiustizia, alle sevizie, al tradimento, ma che il destino può vulnerare come il fanciullo l’ala della farfalla. Il cuore ne esce con il battito stanco; da quel momento l’uomo diventerà forse più buono, forse più forte, e forse anche più deciso o cosciente nella sua opera, ma non troverà più nel suo spirito quella pienezza di vita e di umori in cui ogni volta egli sfiora la felicità. Era, quella sera, il 18 dicembre 1944.

  Il bar era deserto. Sedevi a un tavolo dietro la vetrata; in un angolo stavano abbracciati un soldato straniero e una ragazza. Ti alzasti quando io entrai. Eri altro, diafano, la barba  bionda, lunga di due giorni ti ombrava il volto come una luce appena diffusa. Il tuo sguardo era dolce, incerto, quasi velato. <<Fatti vedere>> ti dissi, e fissai i tuoi occhi ch’erano, come in ogni innocente, il tuo specchio. V’era, in essi, il segno di una dura lotta, e nell’intensità della loro acquamarina, una irreducibilità più forte del male.

  Non c’erano tram né auto per cui salisti sulla canna della bicicletta; bilanciavamo la valigia sul manubrio, lentamente entrammo in città. Tutto, adesso, può diventare un simbolo. Alto com’eri, mi proibivi l’orizzonte; io pedalavo e tu mi guidavi. Pedalavo piano, appena da mantenere l’equilibrio, per evitarti le scosse. A ruota libera infilammo via Tomacelli ove il traffico divenne più intenso, ti divertivi a scampanellare, a dare sulla voce ai passanti; mi chiedevi il nome delle strade, le notizie dell’anno trascorso, dicevi: <<Mi sembra di entrare in un nuovo mondo>>. E poi: <<Speriamo che Roma mi porti fortuna>>.

  Ci coricammo nello stesso letto, come tanti anni prima. Parlammo fino all’alba. Tu dicesti:

  <<Ti ricordi? Dieci anni fa eri tu il malato e io il sano>>.

  <<Anche tu guarirai>> ti risposi.

  <<Quante cose sono successe in questi dieci anni!>>

  Eravamo in letto, la camera dava sul cortile; si udiva scalpicciare dal piano di sopra e ogni tanto, di lontano, proveniva l’eco di uno sparo. Ti voltasti verso di me, sul fianco, dicesti: <<Siamo cambiati molto in questi dieci anni. Io in specie, ma anche tu>>. Ti sporgesti sul mio viso e mi baciasti.

Ricordammo i dieci anni durante i quali avevamo imparato a volerci bene.  


Laboratori Di Medicina Narrativa: sabato 30 Maggio dalle 16 alle 17.30

La sessione del 30 maggio 2020 è stata molto partecipata, si è percepito un clima di vicinanza e calore emotivo. Abbiamo lavorato sul testo di Eugenio Montale “Portami il girasole ch’io lo trapianti”, una poesia scritta nel 1925 tratta dalla raccolta “Ossi di seppia”, che abbiamo scelto perché evocativa di temi su cui ci sembrava importante riflettere durante questa emergenza sanitaria, perché trasversali alle vite di tutti noi. L’invito alla scrittura è stato “Portami…”.

Attraverso la close reading della poesia i partecipanti hanno subito evidenziato la forma del testo e la potenza del linguaggio utilizzato dal poeta, ricco di sinestesie, quindi evocativo di tutti i nostri sensi, e di antinomie. Siamo rimasti “colpiti dal colore e dalla musica”, ha osservato un partecipante. Proprio attraverso i contrasti (luce – oscurità, corpo – essenza, aspetti reali – elementi metafisici, presenza finitezza – infinito) i partecipanti sono stati condotti a riflettere su cosa potesse significare trapiantare un fiore, simbolo di luce, in un terreno arido, bruciato dal salino. Forse la ricerca di una qualche verità, del senso della vita attraverso l’esplorazione del proprio animo, di una “essenza”? Da sottolineare che il poeta chiede ad un “tu” un aiuto in questo processo di trasformazione in cui le cose fluiscono ma anche si esauriscono e svaniscono. Al tu rivolge per due volte la preghiera per poter ricevere in dono il fiore impazzito di luce che permetterà alla vita di evaporare/trasfigurarsi in essenza: questo dialogo con l’altro apre al tema del donare e del ricevere, sottolineato già nel titolo e poi nel primo verso dal verbo “trapiantare”, che ha un significato molto preciso nel mondo della medicina e che qui ci porta a immaginare un fascio di luce che si conficca nel terreno bruciato dal salino e gli ridona con una vibrazione di colori, musiche e sensazioni, l’energia della vita e la possibilità di avere radici solide. Ma quale vita? Alcuni partecipanti hanno ipotizzato che il poeta stia parlando del tempo in cui ci si prepara alla morte, non con angoscia e disperazione, bensì con accettazione e forse anche con un atteggiamento mistico, di leggerezza e trascendenza. Tutti abbiamo concordato che questo testo ha aperto più domande che fornito risposte e con questi interrogativi abbiamo ammirato alcuni quadri in cui Van Gogh e Klimt hanno rappresentato la loro idea di girasole. Qui i partecipanti hanno scritto nella chat alcune rapide impressioni su questa associazione tra la poesia e i dipinti, per passare subito dopo all’attività di scrittura a partire dall’invito “Portami…”. L’ascolto attento dei testi scritti dai partecipanti ci ha portati a riflettere su come ogni persona ha davvero “portato” in dono qualcosa di sé al gruppo: un ricordo, un desiderio, una storia, un incontro, ed anche nuove immagini ed emozioni attraverso l’uso sapiente della parola che rende reale e vero il nostro mondo della vita. Molto profondo e significativo anche il modo in cui le persone hanno “risposto” ai testi che venivano letti, donando, ancora una volta all’altro un piccolo contributo per esplorare le parole scritte, per aprire nuove direzioni per la riflessione.

Durante questo workshop online eravamo più di 50: la qualità della partecipazione ha fatto sì che, come ha detto una partecipante, si creasse un percorso fra i presenti, un rimbalzare di parole dette, scritte e lette che inevitabilmente ci hanno “portati” l’uno verso l’altro. Noi facilitatori ed organizzatori di questo workshop ringraziamo tutti i partecipanti di questo grande dono. 

Invitiamo i partecipanti del laboratorio a condividere i propri scritti nella parte “blog” dedicata alla fine della presente pagina (“Leave a Reply”). Speriamo di creare, attraverso questo forum di condivisione, uno spazio in cui continuare la nostra conversazione!

Portami il girasole ch'io lo trapianti 
– Eugenio Montale

Portami il girasole ch'io lo trapianti
nel mio terreno bruciato dal salino,
e mostri tutto il giorno agli azzurri specchianti
del cielo l'ansietà del suo volto giallino.

Tendono alla chiarità le cose oscure
si esauriscono i corpi in un fluire
di tinte: queste in musiche. Svanire
è dunque la ventura delle venture.

Portami tu la pianta che conduce
dove sorgono bionde trasparenze
e vapora la vita quale essenza;
portami il girasole impazzito di luce.
Gustav Klimt,
Il girasole (1906)
Van Gogh,
Girasoli (1889)
Van Gogh,
Girasoli (1889)
Gustav Klimt,
Giardino di campagna
con girasoli (1906)

Laboratori Di Medicina Narrativa: martedì 26 Maggio dalle 19 alle 20.30

Volevamo ringraziare i nostri partecipanti per un altro laboratorio ricco di riflessioni e intuizioni. Abbiamo fatto un “close reading” del quadro “Primi passi, da Millet” (1890), di Vincent van Gogh. Questa volta siamo stati un gruppo più intimo delle scorse volte, e questo ci ha dato l’opportunità per condividere ancora più intensamente i nostri pensieri, opinioni ed analisi dell’opera presentata. I partecipanti erano colpiti dai temi della protezione, dell’amore familiare, il senso di dovere, l’abbandono e la crescita. Hanno fatto notare i colori tenui del quadro che catturano lo sguardo, la precarietà dell’equilibrio della bimba e la presenza dei due genitori, che sono come “due colonne” di appoggio per la piccola. Qualche partecipante ha messo in rilievo il tema del tempo che sottende l’immagine – il momento quasi sospeso della pausa, in cui il presente della relazione induce a posare gli attrezzi del lavoro e a fermarsi, che sembra interrompere la continuità del passare del tempo nei campi dove il padre lavora, a sua volta inserito all’interno del tempo più ampio, “macro”, della vita in sé, una vita per l’altro. Quando è stato chiesto di dare un titolo al quadro, alcuni partecipanti hanno proposto: “Se cadi ti accolgo”, “La pausa”, “L’autonomia”, “Imparare a cadere” e “L’attesa dell’abbraccio”. I titoli descrivevano la difficoltà della bimba a muoversi in quello spazio esterno, la ricorrenza dell’aspettare e l’abbraccio sospeso – quest’ultimo, con il suo carattere incompiuto, richiama gli abbracci attesi e sospesi che caratterizzano l’attuale tempo di crisi sanitaria. Come ultima parte dell’analisi, abbiamo paragonato il quadro che aveva ispirato van Gogh, “I primi passi” di Jean-François Millet (1858), e il quadro stesso di van Gogh. I partecipanti hanno rilevato delle differenze tra le due immagini nella caratterizzazione della bimba, dei corpi, delle piante e del terreno. Hanno sottolineato anche il gioco tra la separazione e la vicinanza, che può essere colto in entrambi i dipinti, e hanno concluso che i due quadri presentano due modi di vedere la realtà. 

Dopo il “close reading,” i facilitatori hanno proposto il prompt: “Scrivi sul tema – Primi passi”. I partecipanti hanno condiviso i loro “primi passi”, che per alcuni, erano i primi primi passi da piccoli oppure i primi passi in un mondo post-quarantena. Abbiamo parlato di come con il tempo perdiamo i ricordi, ma li recuperiamo attraverso le parole di chi era testimone dei nostri primi passi. Uno dei facilitatori hanno fatto notare che la poesia in sé è fatta di passi.  

Vi invitiamo a continuare la conversazione postando in questo blog la vostra scrittura o qualche altro commento che avreste forse voluto condividere.

Vincent van Gogh, Premiers pas, d’après Millet,
(Primi passi, da Millet), 1890, olio su tela, 72×91 cm
(The Metropolitan Museum of Art, New York)
Jean-François Millet, Les premiers pas (I primi passi), 1858 ca.,
matita su carta, 32×43 cm
(Lauren Rogers Museum of Art, Laurel, Mississippi)


Laboratori Di Medicina Narrativa: sabato 23 Maggio dalle 16 alle 17.30

Ringraziamo le centinaia di persone che da tutta Italia hanno trovato il tempo per condividere i loro pensieri e le loro emozioni nel nostro spazio Zoom. 

Dapprima, abbiamo studiato insieme il quadro proposto alla fine di questo post. I partecipanti sono rimasti colpiti dagli elementi di amore, attenzione e cura familiare. Si è parlato dell’ascolto, del dono della letteratura e dell’idea di una “lettura accurata”. Qualcuno ha fatto notare la luce carezzevole che cade sul volto dell’anziano, l’espressione del ragazzo, la vicinanza delle mani. Sono emersi molti dettagli della stanza: la tazza, la teiera, la stufa, i cuscini, il grembiule, le differenze nell’uso dei colori… Da alcuni, la scena è stata letta come la rappresentazione di una vita che cresce e si sviluppa (quella del ragazzo), mentre un’altra vita (quella dell’anziano) che si avvicina alla fine. 

Prima di rivelare il titolo originale dell’opera, i partecipanti sono stati invitati a dare un proprio titolo e scriverlo nella chat: molti si sono focalizzati sulla parola e l’ascolto, ma non è mancato chi ha messo in luce la differenza d’età, la cura, la relazione. Solo a quel punto, il titolo originale e l’autore sono stati resi noti: Devozione al nonno (1893) di Albert Anker.  

Poi, è venuto il momento della scrittura. L’invito tematico era: “Descrivi una scena di cura”. I testi condivisi hanno parlato sia della famiglia che dall’ambito sanitario sottolineando l’importanza della cura, per sé e per gli altri, soprattutto oggi, in questo momento di crisi. 

Ringraziamo ancora i partecipanti per la ricchezza degli scambi, e invitiamo chiunque voglia farlo a condividere il proprio scritto alla fine di questa pagina (“Leave a Reply”), per creare un ulteriore spazio di condivisione e confronto.

“Devozione al nonno” di Albert Anker

Laboratori Di Medicina Narrativa: martedì 19 Maggio dalle 19 alle 20

Ringraziamo le 200+ persone che da tutta Italia ci hanno raggiunto nel nostro spazio Zoom per il primo laboratorio di medicina narrativa in lingua italiana! Da quando il laboratorio è cominciato, si sentiva un’energia e una voglia di partecipare, condividere, ascoltare e stare assieme ad altre persone, nonostante le distanze. Lo spazio Zoom sembrava quasi risuonare dell’entusiasmo dei partecipanti. I facilitatori erano ugualmente emozionati di cominciare questo nuovo progetto di medicina narrativa.

Abbiamo letto insieme il testo di Alda Merini “Spazio”, una poesia scritta negli anni novanta, che abbiamo scelto perché evocativa di temi molto sentiti durante questa emergenza sanitaria. Il prompt di scrittura è stato “Descrivi un tuo spazio”. 

Costretti a casa o in luoghi chiusi per molto tempo durante la pandemia, i nostri partecipanti  hanno espresso il desiderio di aprirsi a nuovi spazi. Il lockdown ci ha fatto sperimentare un senso di clausura e un grande silenzio tutt’attorno nelle città che si erano svuotate, luoghi deserti, in assenza di corpi che invece vivevano confinati all’interno dei perimetri ristretti e obbligati delle case. I verbi di movimento utilizzati dalla poetessa (cantare, crescere, errare, saltare) sono per noi la metafora di un risveglio, di un cambiamento e della possibilità di andare oltre i confini del corpo, di uscire dalla paralisi. Nella discussione di gruppo dagli spazi del mondo esteriore si è passati a quelli del mondo interno: la stessa poesia della Merini sembra fare questo passaggio dal fuori al dentro, tra la prima e la seconda parte del testo. E da dentro si sprigiona un urlo inumano, di silenzio, che parla dell’antica ferita quasi a richiedere ascolto dagli altri ma anche da se stessi. Abbiamo scoperto insieme quanto abbiamo bisogno di fare spazio dentro di noi per ascoltarci, per comprenderci anche nella nostra fragilità e vulnerabilità. Coltivare lo spazio interiore è una grande risorsa per far fronte ad eventi difficili. Questo come atto di cura di sé, di guarigione.Gli workshop online di questo periodo rappresentano anch’essi uno spazio di ascolto, riflessione e condivisione, per sostenerci come comunità e affrontare tutta questa sofferenza che è dilagata ovunque.

A questo primo appuntamento eravamo moltissimi e solo pochi sono potuti intervenire per commentare in risposta alla poesia di oggi, leggere la propria scrittura, esprimere pensieri ad alta voce. Tuttavia anche ascoltare, scrivere, riflettere in silenzio costituiscono un movimento partecipativo e significativo per aprirsi agli altrui punti di vista, per cogliere sguardi nuovi, per apprendere come onorare le storie degli altri e le proprie. “Ascoltarsi è creare spazio”, come osservato da un commento condiviso al termine del nostro laboratorio di oggi. Siamo lieti di aver potuto creare questo spazio insieme: leggendo, commentando, condividendo, ascoltando, o semplicemente con la propria presenza. 

Ringraziandovi di cuore, vi invitiamo a continuare la conversazione postando in questo blog la vostra scrittura o qualche altro commento che magari avreste voluto condividere con il grande gruppo. Restiamo connessi e arrivederci al prossimo workshop di sabato 23 maggio alle ore 16.00, per continuare a creare insieme “uno spazio” per sentirci vicini nonostante la lontananza. Per permettere a più voci e commenti di arricchire questo nostro spazio, abbiamo deciso di offrire un workshop di 90 minuti (invece di 60 minuti). Pertanto, il workshop di sabato 23 durerà dalle 16.00 alle 17.30. Vi aspettiamo!


Spazio, Alda Merini  
(da “Vuoto d’amore”)
 
Spazio spazio, io voglio, tanto spazio 
per dolcissima muovermi ferita; 
voglio spazio per cantare crescere 
errare e saltare il fosso 
della divina sapienza. 
Spazio datemi spazio 
ch’io lanci un urlo inumano, 
quell’urlo di silenzio negli anni 
che ho toccato con mano.